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martedì 29 dicembre 2015

"LE LETTERE MAI ARRIVATE" DI MAURICIO ROSENCOF

Presentiamo la prima parte dello scritto di Diego Símini che accompagna il prezioso volume di Rosencof in uscita per la nostra casa editrice.

Mauricio Rosencof è nato nella piccola città di Florida, Uruguay, nel 1933, da genitori ebrei provenienti da Belzitse, un paesino della Polonia nei dintorni di Lublino. Suo padre, Isaac, faceva il sarto, e pochi anni dopo la nascita di Moishe (questo il nome imposto al bambino, presto sostituito dal meno connotativo Mauricio; anche il cognome subisce una semplificazione ortografica, dall’originale Rozenkopf), la famiglia si trasferì a Montevideo, nel quartiere del porto, zona di intrecci culturali e di solidarietà popolare, quindi nel quartiere Palermo, confinante con il Barrio Sur dove maggiore è la concentrazione di case dei neri. Come gli altri originari dell’est europeo, Mauricio ebbe il soprannome di Ruso, che ancora lo contraddistingue.

La madre e il fratello maggiore dello scrittore erano stati “gli ultimi a lasciare il paese liberi”: alcuni anni dopo, tutti i parenti, come tutti gli ebrei di Lublino, come tutti gli ebrei che si trovavano nei territori occupati dai tedeschi, furono portati nei campi di sterminio nazisti. La famiglia di Mauricio aspettò, invano, loro notizie per anni. Compiuto l’Olocausto, i Rosencof ebbero notizia che una sorella di Isaac era sopravvissuta, uscita da Auschwitz “lo stesso giorno di Primo Levi”, come ama ricordare Mauricio, fervente ammiratore dell’autore di Se questo è un uomo. Adolescente, lo scrittore poté vedere il tristemente celebre tatuaggio sull’avambraccio di un’altra sopravvissuta allo sterminio nazista.

Rosencof è cresciuto in una condizione di integrazione nel tessuto sociale uruguaiano che almeno fino agli anni ’50 è stato in grado di accogliere un numero considerevole di immigrati senza innescare alcuna deriva segregazionista, senza costituire divisioni tra persone di provenienze diverse, ma al tempo stesso senza disconoscerne le differenze culturali. Pur essendo figlio di genitori che parlavano a stento in spagnolo, Mauricio, il cui amico di infanzia, Fito, è figlio di italiani, appartiene pienamente alla cultura e al contesto sociale uruguaiano. Fin da giovane, si è impegnato nel dibattito politico, con una decisa scelta di sinistra. Giornalista e scrittore (soprattutto di opere teatrali), fu tra i fondatori dei Tupamaros, organizzazione che si formò nei primi anni ’60 intorno all’idea che la democrazia liberale, di lunga e consolidata tradizione in Uruguay, non avrebbe mai permesso cambiamenti sostanziali nell’assetto sociale e nella redistribuzione della ricchezza. Pur essendo uno dei Paesi latinoamericani in cui la forbice del reddito era meno pronunciata, pur avendo raggiunto uno dei più bassi tassi di analfabetismo e pur disponendo di un sistema di previdenza sociale e di assistenza sanitaria tra i migliori del continente, l’Uruguay viveva laceranti contraddizioni che i Tupamaros, capeggiati da Raúl Sendic, volevano risolvere. Il sistema produttivo, che per decenni era risultato vincente, consisteva essenzialmente nello sfruttamento estensivo delle sconfinate praterie del Paese destinate all’allevamento di bovini e ovini. Fino agli anni ’50, l’Uruguay era stato in grado di sostenere un’economia abbastanza agiata fondata quasi esclusivamente sull’esportazione di carne e lana. Mentre a Montevideo viveva un folto ceto medio dedito al terziario (grazie alla sua stabilità politica ed economica l’Uruguay aveva un sistema bancario allettante per gli investitori dei Paesi vicini ed era perciò definito “la Svizzera dell’America latina”), nel resto del Paese, il cosiddetto interior, enormi distese di terreno consentivano ai loro proprietari di vivere di rendita col solo impiego di un ristretto numero di addetti, peraltro sottopagati, che ogni tanto si occupavano di radunare il bestiame da avviare al macello o alla tosa. Questo era uno dei principali problemi della struttura economica dell’Uruguay e quindi, secondo la parte progressista dell’opinione pubblica, era urgente procedere a una profonda riforma agraria, che avrebbe consentito a chi viveva del proprio lavoro nei campi di emanciparsi da un sistema che ricorda il feudalesimo. Ma, al di là della questione agraria, il “sistema Uruguay” era certamente entrato in crisi nei primi anni ’60 e la classe politica “tradizionale” (cioè i due partiti che si era alternati al potere fin dall’indipendenza, il Partido Colorado e il Partito Nacional, quest’ultimo abitualmente indicato come Blanco) non appariva in grado di affrontare adeguatamente la situazione. I piccoli partiti (socialista, comunista, democrazia cristiana), che si battevano per una riforma del sistema produttivo, avevano risultati elettorali marginali.

Questo, secondo i Tupamaros, configurava una situazione inaccettabile, quindi decisero di agire. (...)

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