Presentiamo la prima parte dello scritto di Diego Símini che accompagna il prezioso volume di Rosencof in uscita per la nostra casa editrice.
Mauricio Rosencof è nato nella
piccola città di Florida, Uruguay, nel 1933, da genitori ebrei provenienti da
Belzitse, un paesino della Polonia nei dintorni di Lublino. Suo padre, Isaac,
faceva il sarto, e pochi anni dopo la nascita di Moishe (questo il nome imposto
al bambino, presto sostituito dal meno connotativo Mauricio; anche il cognome
subisce una semplificazione ortografica, dall’originale Rozenkopf), la famiglia
si trasferì a Montevideo, nel quartiere del porto, zona di intrecci culturali e
di solidarietà popolare, quindi nel quartiere Palermo, confinante con il Barrio Sur dove maggiore è la
concentrazione di case dei neri. Come gli altri originari dell’est europeo,
Mauricio ebbe il soprannome di Ruso,
che ancora lo contraddistingue.
La madre e il fratello maggiore
dello scrittore erano stati “gli ultimi a lasciare il paese liberi”: alcuni
anni dopo, tutti i parenti, come tutti gli ebrei di Lublino, come tutti gli
ebrei che si trovavano nei territori occupati
dai tedeschi, furono portati nei campi di sterminio nazisti. La famiglia di Mauricio
aspettò, invano, loro notizie per anni. Compiuto
l’Olocausto, i Rosencof ebbero notizia che una sorella di Isaac era
sopravvissuta, uscita da Auschwitz “lo stesso giorno di Primo Levi”, come ama ricordare
Mauricio, fervente ammiratore dell’autore di Se questo è un uomo. Adolescente,
lo scrittore poté vedere il tristemente celebre tatuaggio sull’avambraccio di
un’altra sopravvissuta allo sterminio nazista.
Rosencof è cresciuto in una
condizione di integrazione nel tessuto
sociale uruguaiano che almeno fino agli anni ’50 è
stato in grado di accogliere un numero considerevole di immigrati senza
innescare alcuna deriva segregazionista, senza costituire divisioni tra persone
di provenienze diverse, ma al tempo stesso senza disconoscerne le differenze
culturali. Pur essendo figlio di genitori che parlavano a stento in spagnolo,
Mauricio, il cui amico di infanzia, Fito, è figlio di italiani, appartiene
pienamente alla cultura e al contesto sociale uruguaiano. Fin da giovane, si è
impegnato nel dibattito politico, con una decisa scelta di sinistra.
Giornalista e scrittore (soprattutto di opere teatrali), fu tra i fondatori dei
Tupamaros, organizzazione che si formò nei primi anni ’60 intorno all’idea che
la democrazia liberale, di lunga e consolidata tradizione in Uruguay, non
avrebbe mai permesso cambiamenti sostanziali nell’assetto sociale e nella
redistribuzione della ricchezza. Pur essendo uno dei Paesi latinoamericani in
cui la forbice del reddito era meno pronunciata, pur avendo raggiunto uno dei
più bassi tassi di analfabetismo e pur disponendo di un sistema di previdenza
sociale e di assistenza sanitaria tra i migliori del continente, l’Uruguay
viveva laceranti contraddizioni che i Tupamaros, capeggiati da Raúl Sendic, volevano
risolvere. Il sistema produttivo, che per decenni era risultato vincente,
consisteva essenzialmente nello sfruttamento estensivo delle sconfinate
praterie del Paese destinate all’allevamento di bovini e ovini. Fino
agli anni ’50, l’Uruguay era stato in grado di sostenere un’economia abbastanza
agiata fondata quasi esclusivamente sull’esportazione
di carne e lana. Mentre a Montevideo viveva un folto ceto medio dedito al
terziario (grazie alla sua stabilità politica ed economica l’Uruguay aveva un
sistema bancario allettante per gli investitori dei Paesi vicini ed era perciò
definito “la Svizzera dell’America latina”), nel resto del Paese, il cosiddetto interior, enormi distese di terreno
consentivano ai loro proprietari di vivere di rendita col solo impiego di un
ristretto numero di addetti, peraltro sottopagati, che ogni tanto si occupavano
di radunare il bestiame da avviare al macello o alla tosa. Questo era uno dei
principali problemi della struttura economica dell’Uruguay e quindi, secondo la
parte progressista dell’opinione pubblica, era urgente procedere a una profonda
riforma agraria, che avrebbe consentito a chi viveva del proprio lavoro nei
campi di emanciparsi da un sistema che ricorda il feudalesimo. Ma, al di là della
questione agraria, il “sistema Uruguay” era certamente entrato in crisi nei
primi anni ’60 e la classe politica “tradizionale” (cioè i due partiti che si
era alternati al potere fin dall’indipendenza, il Partido Colorado e il Partito
Nacional, quest’ultimo abitualmente indicato come Blanco) non appariva in grado di affrontare adeguatamente la
situazione. I piccoli partiti (socialista, comunista, democrazia cristiana),
che si battevano per una riforma del sistema produttivo, avevano risultati
elettorali marginali.
Questo, secondo i Tupamaros,
configurava una situazione inaccettabile, quindi decisero di agire. (...)
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