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martedì 24 agosto 2021

La memoria vivida. Corpi, genere e violenza in Colombia (1990-2020)

Proponiamo in questa sede un estratto dal paragrafo del libro di Francesca Casafina dedicato al rapporto tra memoria, militanza e narrazione:

La questione delle vittime di crimini di Stato ha suscitato un ampio e spesso controverso dibattito in Colombia. Uno studio realizzato dal gruppo di lavoro guidato da Kathryn Sikkink del Carr Center dell’Università di Harvard ha rilevato che nella Ley de Víctimas il gruppo di vittime è stato più alto che in qualsiasi altro programma di riparazione. Nella Legge Justicia y Paz del 2005 le vittime venivano identificate come coloro che avevano sofferto un danno da parte di gruppi armati illegali, definizione duramente criticata dal Movimiento de víctimas de crímenes de estado (Movice), che ha messo in evidenza i limiti di una tale classificazione. La Ley de Víctimas ha ampliato la nozione: «Se consideran víctimas, para los efectos de esta ley, aquellas personas que individual o colectivamente hayan sufrido un daño por hechos ocurridos a partir del 1º de enero de 1985, como consecuencia de infracciones al Derecho Internacional Humanitario o de violaciones graves y manifiestas a las normas internacionales de Derechos Humanos, ocurridas con ocasión del conflicto armado interno. […] La condición de víctima se adquiere con independencia de que se individualice, aprehenda, procese o condene al autor de la conducta punible y de la relación familiar que pueda existir entre el autor y la víctima».

In alcuni contesti latinoamericani, le vittime delle dittature e dei crimini di Stato hanno messo in discussione, come si è detto, l’uso della categoria “vittima”, rivendicando il proprio ruolo di «guardianes de una memoria contrahegemónica que cuestiona la violencia estatal y la configuración sociopolítica producto de su ejercicio». Per molte e molti militanti il discorso sulle vittime rischia di oscurare la dimensione politica della violenza, così come le proprie scelte etiche che hanno rappresentato – e spesso continuano a rappresentare – una parte importante della posizione che intendono occupare come soggetto, rivendicandone appunto l’opzione etica e politica che è alla base. Molte vittime lo diventano proprio nel momento in cui decidono di combattere la paura, esponendosi al rischio di venire perseguitate o uccise (dai paramilitari, dalla guerriglia, dal terrorismo di Stato ecc.). Secondo Ricardo Vinyes, si tratta di soggetti le cui decisioni sono scaturite da scelte considerate necessarie per poter vivere secondo i propri criteri, progetti o speranze. La figura della vittima (così come quella dell’eroe), secondo Ana Longoni, viene spesso de-politicizzata; ed entrambe, ha scritto Tamara Vidaurrázaga, sono figure del passato. Implicita nella de-politicizzazione è la tendenza a omogeneizzare le vittime, in molti casi diluendone le scelte politiche nel grande racconto della violenza, opacizzando le relazioni di potere e mettendo al centro del dibattito i fatti ma non i meccanismi che li rendono possibili. Permettere alla categoria di “vittima” di venire attraversata da simili tensioni consente alle opzioni politiche, tanto individuali quanto collettive, di emergere come elemento chiave nei processi di memoria.

Uno strumento utile a esplorare la matassa di fili che legano i vissuti personali alle memorie collettive, le autonarrazioni alle storie del corpo politico collettivo, sono le storie di vita, utili a mettere in luce i meccanismi di costruzione di un immaginario della militanza intessuto nelle trame della violenza e a interrogare il lutto a partire da una posizione politica definita. Le storie di vita, a partire dalla costruzione consapevole della narrazione, permettono di illuminare i diversi momenti della traiettoria umana e militante per mezzo di un racconto attraverso il quale la militante o il militante rende «comprensibile il suo mondo», le sue relazioni, le «offerte di partecipazione» e le reti interpersonali dentro cui si inserisce la narrazione stessa. Ovviamente ciò non significa leggere le traiettorie individuali in sequenza lineare: il flusso non è mai lineare e cronologico ma attraversato tanto da continuità quanto da punti di rottura che ne alterano la logica sequenziale. Come ha scritto Yasmine Ergas in un saggio sulle biografie di militanti femministe italiane negli anni settanta, la militanza riguarda il locus in cui si colloca l’identità del militante e della militante, la continuità della identificazione con un soggetto collettivo attorno al quale è cresciuta una «cultura avversaria». Così intesa, essa può conoscere trasformazioni, cambi, riformulazioni.

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