NOVA DELPHI LIBRI - il Blog
sabato 6 febbraio 2021
mercoledì 16 settembre 2020
In libreria "Le politiche dell'odio nel Novecento americano"a cura di Laura Fotia. Di seguito un brano dell'introduzione
L’analisi
del concetto di odio è un’impresa in cui si sono cimentati studiosi di molte
discipline, rivelatasi talmente ardua che neppure in specifici ambiti
disciplinari sembra possibile riscontrare una definizione univoca della natura
dell’“odio” ampiamente accettata. Fino al punto che il concetto stesso resta
sfuggente, ambiguo, difficilmente incasellabile in rigidi contenitori
interpretativi che appaiano esaustivi e soddisfacenti. L’odio è descritto
da neuroscienziati, psicologi sociali, scienziati sociali ora come un’emozione,
ora come un sentimento, ora come una passione, spesso attraverso il riferimento
a modelli di funzionamento della mente umana che sono in continua
ridefinizione, al punto che è piuttosto difficile averne una effettiva
conoscenza aggiornata. Il risultato è che, spesso, lo stesso termine è
utilizzato per indicare fenomeni e realtà profondamente diverse. Agli
interrogativi sul come e perché l’odio nasca, in quali forme si manifesti più
frequentemente, a quali comportamenti e azioni possa condurre e quali possano
essere i modi per contrastarlo si è risposto in modo altrettanto diversificato,
anche a seconda della prospettiva, riconducibile allo specifico ambito
disciplinare dal quale si guarda al problema. Nell’accostarsi
allo “studio” dell’odio nella storia, o – meglio – in specifici contesti
storici, si avverte il profondo disagio che nasce nel momento in cui si assume
consapevolezza dell’impossibilità di costruire un’interpretazione senza fare i
conti con gli incombenti spettri dell’approssimazione e della superficialità,
che spesso vanno a braccetto con la presunzione di poter ricondurre la
complessità della realtà a spiegazioni univoche, esaustive e, soprattutto,
definitive. Se la pretesa di
individuare una puntuale definizione dell’odio come categoria storiografica
rischia di generare problemi di difficile risoluzione, si può allora scegliere
di metterla da parte e procedere diversamente, analizzando concreti processi
storici che implicano idee e comportamenti ritenuti in qualche modo connessi o
riconducibili a fenomeni di odio. A questo fine, si possono prendere in
considerazione, in modo flessibile e mantenendo un approccio critico,
definizioni formulate in altri ambiti disciplinari, che offrono chiavi di
lettura stimolanti; per questa via, si può puntare all’individuazione di un
concetto, non rigido, di odio, costruito per approssimazioni successive
attraverso lo studio di specifici casi storici. Una soluzione per
aggirare il disagio, ammesso che ci si riesca, potrebbe essere anche quella di
partire dalla considerazione che, dal punto di vista storiografico, ad
interessare non dovrebbe essere tanto una definizione della natura dell’odio
fondata su modelli generali in grado di spiegare fenomeni tanto articolati
quanto sfuggenti, finendo per rimandare a concetti e univoci. Elemento portante
di analisi di tipo storiografico dovrebbero essere allora non tanto la
negazione, quanto piuttosto la messa in discussione dell’idea di
“ineluttabilità dell’odio”, quale elemento proprio, innato, della natura umana,
nella convinzione che tanto il sentimento dell’odio, quanto i comportamenti che
ad esso sono in parte riconducibili, costituiscano comunque il risultato di
dinamiche concrete e quindi in una certa misura specificamente individuabili e
ricostruibili. (...)
In libreria "Le politiche dell'odio nel Novecento americano"
a cura di Laura Fotia.
Di seguito un brano dell'introduzione
L’analisi
del concetto di odio è un’impresa in cui si sono cimentati studiosi di molte
discipline, rivelatasi talmente ardua che neppure in specifici ambiti
disciplinari sembra possibile riscontrare una definizione univoca della natura
dell’“odio” ampiamente accettata. Fino al punto che il concetto stesso resta
sfuggente, ambiguo, difficilmente incasellabile in rigidi contenitori
interpretativi che appaiano esaustivi e soddisfacenti. L’odio è descritto
da neuroscienziati, psicologi sociali, scienziati sociali ora come un’emozione,
ora come un sentimento, ora come una passione, spesso attraverso il riferimento
a modelli di funzionamento della mente umana che sono in continua
ridefinizione, al punto che è piuttosto difficile averne una effettiva
conoscenza aggiornata. Il risultato è che, spesso, lo stesso termine è
utilizzato per indicare fenomeni e realtà profondamente diverse. Agli
interrogativi sul come e perché l’odio nasca, in quali forme si manifesti più
frequentemente, a quali comportamenti e azioni possa condurre e quali possano
essere i modi per contrastarlo si è risposto in modo altrettanto diversificato,
anche a seconda della prospettiva, riconducibile allo specifico ambito
disciplinare dal quale si guarda al problema. Nell’accostarsi
allo “studio” dell’odio nella storia, o – meglio – in specifici contesti
storici, si avverte il profondo disagio che nasce nel momento in cui si assume
consapevolezza dell’impossibilità di costruire un’interpretazione senza fare i
conti con gli incombenti spettri dell’approssimazione e della superficialità,
che spesso vanno a braccetto con la presunzione di poter ricondurre la
complessità della realtà a spiegazioni univoche, esaustive e, soprattutto,
definitive. Se la pretesa di
individuare una puntuale definizione dell’odio come categoria storiografica
rischia di generare problemi di difficile risoluzione, si può allora scegliere
di metterla da parte e procedere diversamente, analizzando concreti processi
storici che implicano idee e comportamenti ritenuti in qualche modo connessi o
riconducibili a fenomeni di odio. A questo fine, si possono prendere in
considerazione, in modo flessibile e mantenendo un approccio critico,
definizioni formulate in altri ambiti disciplinari, che offrono chiavi di
lettura stimolanti; per questa via, si può puntare all’individuazione di un
concetto, non rigido, di odio, costruito per approssimazioni successive
attraverso lo studio di specifici casi storici. Una soluzione per
aggirare il disagio, ammesso che ci si riesca, potrebbe essere anche quella di
partire dalla considerazione che, dal punto di vista storiografico, ad
interessare non dovrebbe essere tanto una definizione della natura dell’odio
fondata su modelli generali in grado di spiegare fenomeni tanto articolati
quanto sfuggenti, finendo per rimandare a concetti e univoci. Elemento portante
di analisi di tipo storiografico dovrebbero essere allora non tanto la
negazione, quanto piuttosto la messa in discussione dell’idea di
“ineluttabilità dell’odio”, quale elemento proprio, innato, della natura umana,
nella convinzione che tanto il sentimento dell’odio, quanto i comportamenti che
ad esso sono in parte riconducibili, costituiscano comunque il risultato di
dinamiche concrete e quindi in una certa misura specificamente individuabili e
ricostruibili. (...)
mercoledì 3 giugno 2020
Gian Dàuli e Kipling: una storia sintomatica
In occasione dell'uscita di Stalky & Co. Gli anni della formazione, nella storica traduzione di Gian Dàuli e con l'introduzione di Dario Pontuale, proponiamo una parte della postfazione di Graziella Pulce dedicata proprio al traduttore, scrittore ed editore vicentino.
La traduzione di Stalky & Co. uscì per i tipi dell’editore milanese Bietti nel 1931. Il traduttore, che firmò anche la prefazione, era Gian Dàuli, al secolo Giuseppe Ugo Nalato, traduttore, scrittore, editore, creatore di collane editoriali e personaggio atipico nel contesto culturale italiano di primo Novecento. Insieme con London e Conrad, Kipling rappresenta per Dàuli lo “spirito d’avventura, d’azione, di vita vissuta pericolosamente” (come scrive in un appunto conservato nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza) che senz’altro gli è consentaneo.
Dàuli fu un infaticabile promotore culturale tra gli anni venti e trenta, un vero pioniere, l’artefice di scoperte che in molte occasioni per primo portò all’attenzione del pubblico italiano. Il caso più clamoroso fu senz’altro la pubblicazione di “Tutte le opere di Jack London”, impresa estremamente significativa e meritoria sul piano culturale ma gravosissima sotto il profilo dell’impegno finanziario, che ebbe come conseguenza il tracollo della casa editrice Modernissima, che se ne era assunta il carico.
Lo spirito con il quale Dàuli conduceva ogni sua attività era quello di promuovere la modernità e favorire il contatto tra le varie civiltà culturali e letterarie. I titoli scelti per presentare le sue collane evocano un’idea di letteratura che è soprattutto narrativa moderna e di respiro internazionale: “Ultra” per la casa editrice Dauliana (1928-1929); “Scrittori stranieri” per la Delta, anch’essa fondata da Dàuli (1928-1930); “Scrittori di tutto il mondo”, prima per la casa editrice Modernissima (1929-1930), poi per Corbaccio, con Enrico Dall’Oglio (1932-1934). Il fondamento ideologico è quello che ha conosciuto in Inghilterra e cui rimarrà fedele nei decenni successivi. Si tratta di una forma di comtismo, diretto a promuovere i valori della fratellanza universale e dell’armonia tra i popoli, la “Religione dell’Umanità” cui era stato iniziato durante il suo soggiorno a Liverpool (1903-1906). Accanto al comtismo si profila ben presto la devozione ai valori socialisti e libertari, idealità che sfociano in una serie di intraprese culturali guardate da subito con sospetto dalle autorità. La sua è un’editoria decisamente popolare, perdipiù proposta ed esitata a prezzi assai accessibili. I fascicoli aperti a suo nome dalla Polizia politica sin dal 1930 contengono numerosi rapporti informativi di agenti che segnalano con sospetto le attività di Dàuli: il tutto porta alla definitiva classificazione di Gian Dàuli come “antifascista”, con tutte le conseguenze del caso.
Generalmente si manca di ricordare che il primo contatto di Gian Dàuli con l’opera di Rudyard Kipling avvenne nel ’21, con la traduzione de Il garbuglio, numero 9 della collana “I migliori novellieri del mondo” (anche in questo caso con espresso riferimento ultranazionale), edita dalla casa editrice romana Urbis e diretta dall’ispanista ante litteram Mario Puccini (...)
giovedì 22 agosto 2019
"Adesso posso scegliere", note a margine di un libro
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Nadia Angelucci all'anteprima del volume |
Qualche anno fa, a Montevideo, chiacchieravo con una
cara amica: una donna della mia età, famiglia di classe
media che durante gli anni della dittatura era rimasta
in silenzio, una storia di vita che non era arrivata mai
a toccare da vicino le atrocità dei regimi militari degli
anni settanta.
Mi disse: “Quando è finita la dittatura siamo rientrati a scuola, subito dopo che la democrazia era tornata, e ho trovato altri professori; anche i libri di testo sui quali avevo studiato fino a quel momento non erano più gli stessi. E non era più lo stesso neanche il contenuto e la forma con cui i vari argomenti venivano spiegati. A sedici anni ho dovuto ricominciare a imparare e ho capito che ciò che avevo studiato fino a quel momento si poggiava su basi sbagliate. È stato come rimettere in discussione tutta la mia vita.” Dato che in molti anni di amicizia non si era mai lasciata andare a confidenze su quel periodo, il suo breve racconto risultò ancora più prezioso per me, avida di storie su quegli anni. Quella piccola rivelazione sulla scuola e i suoi sedici anni hanno cominciato a scavare e ho iniziato a guardare le persone intorno a me da quel punto di vista: non c’erano solo i desaparecidos, i prigionieri politici, gli esuli, le madres e le abuelas. C’erano anche i figli e le figlie e, spesso, non tanto le loro storie quanto il loro vissuto di bambini e adolescenti e la costruzione delle loro identità, erano stati messi da parte. È stato sempre in quel periodo che ho avuto tra le mani Con un piede impigliato nella Storia, il bel libro di Anna Negri, figlia di Toni, leader storico di Autonomia operaia. E pochi mesi più tardi ho conosciuto Matilde, una delle protagoniste di questo libro. Con Mariana O., invece, era già da tempo che ci confrontavamo su questi temi. Questo libro dunque nasce così. Dalla volontà e dal desiderio di andare a guardare nelle storie delle persone della mia generazione e capire come la Storia, attraverso i piccoli e grandi avvenimenti che la compongono, avesse travolto anche quelle piccole vite. La stesura di queste pagine ha impiegato un tempo lunghissimo durante il quale ci sono stati molti dubbi e ripensamenti, e durante il quale altri progetti hanno preso il sopravvento. La storia dei bambini e delle bambine delle dittature però non mi lasciava, e mentre rincorrevo altri piani, continuavo a studiare e a realizzare interviste.
Nel corso degli anni grazie ai viaggi in America latina, e grazie al processo Plan Cóndor in corso a Roma dal 2015 che ha portato a testimoniare parecchi protagonisti di quegli anni, ho accumulato molto materiale. Decidere quali storie avrebbero fatto parte del libro e quali ne sarebbero state escluse è stato difficile per le implicazioni relazionali che si erano stabilite durante le interviste. Ma è stato nello stesso tempo molto semplice perché non era possibile narrare se non a partire da un riconoscimento reciproco che può generarsi solo dal desiderio e dalla verità.
La fase della scrittura invece è scaturita da una riflessione che è necessariamente dovuta partire da me, per tentare di comprendere come sarei potuta riuscire a realizzare ciò che più mi stava a cuore e cioè l’unicità dell’esperienza e dell’identità personale delle mie protagoniste. Ho scelto di ripercorrere le storie attraverso una narrazione più letteraria che giornalistica o storica, rimettendo al centro la persona, il suo vissuto, l’irripetibilità dei sentimenti, le piccole cose apparentemente inutili, e dirigendo la narrazione sul piano dell’accaduto e del reale invece che dell’universalità astratta. Ho voluto condurre il lettore in una dimensione narrativa e letteraria fino ad accompagnarlo alla reale biografia delle protagoniste che rivela la realtà.
Ho amato intensamente le mie ‘eroine’ che, in questi anni, ho sentito vicine anche nei periodi di non scrittura e che mi hanno accompagnato come sorelle. Ciò che rende speciali per me questi racconti è la presenza luminosa di queste donne che hanno saputo reinventare le loro vite e trasformare il mondo intorno a loro. (...)
Mi disse: “Quando è finita la dittatura siamo rientrati a scuola, subito dopo che la democrazia era tornata, e ho trovato altri professori; anche i libri di testo sui quali avevo studiato fino a quel momento non erano più gli stessi. E non era più lo stesso neanche il contenuto e la forma con cui i vari argomenti venivano spiegati. A sedici anni ho dovuto ricominciare a imparare e ho capito che ciò che avevo studiato fino a quel momento si poggiava su basi sbagliate. È stato come rimettere in discussione tutta la mia vita.” Dato che in molti anni di amicizia non si era mai lasciata andare a confidenze su quel periodo, il suo breve racconto risultò ancora più prezioso per me, avida di storie su quegli anni. Quella piccola rivelazione sulla scuola e i suoi sedici anni hanno cominciato a scavare e ho iniziato a guardare le persone intorno a me da quel punto di vista: non c’erano solo i desaparecidos, i prigionieri politici, gli esuli, le madres e le abuelas. C’erano anche i figli e le figlie e, spesso, non tanto le loro storie quanto il loro vissuto di bambini e adolescenti e la costruzione delle loro identità, erano stati messi da parte. È stato sempre in quel periodo che ho avuto tra le mani Con un piede impigliato nella Storia, il bel libro di Anna Negri, figlia di Toni, leader storico di Autonomia operaia. E pochi mesi più tardi ho conosciuto Matilde, una delle protagoniste di questo libro. Con Mariana O., invece, era già da tempo che ci confrontavamo su questi temi. Questo libro dunque nasce così. Dalla volontà e dal desiderio di andare a guardare nelle storie delle persone della mia generazione e capire come la Storia, attraverso i piccoli e grandi avvenimenti che la compongono, avesse travolto anche quelle piccole vite. La stesura di queste pagine ha impiegato un tempo lunghissimo durante il quale ci sono stati molti dubbi e ripensamenti, e durante il quale altri progetti hanno preso il sopravvento. La storia dei bambini e delle bambine delle dittature però non mi lasciava, e mentre rincorrevo altri piani, continuavo a studiare e a realizzare interviste.
Nel corso degli anni grazie ai viaggi in America latina, e grazie al processo Plan Cóndor in corso a Roma dal 2015 che ha portato a testimoniare parecchi protagonisti di quegli anni, ho accumulato molto materiale. Decidere quali storie avrebbero fatto parte del libro e quali ne sarebbero state escluse è stato difficile per le implicazioni relazionali che si erano stabilite durante le interviste. Ma è stato nello stesso tempo molto semplice perché non era possibile narrare se non a partire da un riconoscimento reciproco che può generarsi solo dal desiderio e dalla verità.
La fase della scrittura invece è scaturita da una riflessione che è necessariamente dovuta partire da me, per tentare di comprendere come sarei potuta riuscire a realizzare ciò che più mi stava a cuore e cioè l’unicità dell’esperienza e dell’identità personale delle mie protagoniste. Ho scelto di ripercorrere le storie attraverso una narrazione più letteraria che giornalistica o storica, rimettendo al centro la persona, il suo vissuto, l’irripetibilità dei sentimenti, le piccole cose apparentemente inutili, e dirigendo la narrazione sul piano dell’accaduto e del reale invece che dell’universalità astratta. Ho voluto condurre il lettore in una dimensione narrativa e letteraria fino ad accompagnarlo alla reale biografia delle protagoniste che rivela la realtà.
Ho amato intensamente le mie ‘eroine’ che, in questi anni, ho sentito vicine anche nei periodi di non scrittura e che mi hanno accompagnato come sorelle. Ciò che rende speciali per me questi racconti è la presenza luminosa di queste donne che hanno saputo reinventare le loro vite e trasformare il mondo intorno a loro. (...)
Nadia Angelucci
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