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mercoledì 27 luglio 2011

MA COME ABBIAMO FATTO A PRIVATIZZARE LA MADRE?

Articolo di Vittorio Bonanni tratto dal quotidiano Liberazione del 24 luglio 2011

Nel testo, realizzato con il contributo dell’associazione Yaku, le battaglie in Bolivia, Uruguay e Colombia per la riappropriazione del prezioso liquido. E uno sguardo sulla situazione italiana con un saggio di Alex Zanotelli. Prefazione di Eduardo Galeano.


Nei decenni scorsi nessuno avrebbe minimamente immaginato che l’acqua sarebbe diventata una risorsa rara, preziosa, tanto preziosa da diventare una merce ambita da multinazionali senza scrupoli che con l’avallo di stati asserviti ai loro interessi hanno lucrato su un bene indispensabile per la vita di ogni essere vivente. L’inquinamento da un lato e uno sviluppo forsennato e ineguale dall’altro hanno fatto da cornice a quello che può essere definito un mutamento epocale che, come è noto, non poteva non coinvolgere i paesi occidentali, e dunque anche l’Italia. Poco tempo prima dell’appuntamento referendario dello scorso mese, che ha visto fortunatamente gli italiani dire no alla privatizzazione dell’acqua, la piccola casa editrice Nova Delphi, pubblicava un testo importante sull’argomento, che partiva proprio dall’esperienza dell’America latina, continente particolarmente colpito dalla privatizzazione del prezioso liquido. Si tratta di La visione dell’acqua (pp. 225, euro 16.00), a cura dell’associazione Yaku, un organismo italiano impegnato nel sostegno delle comunità indigene latinoamericane ed ideatrice insieme ad altre realtà del progetto Escuela Andina de Aqua, un percorso collettivo per la difesa del bene comune. È il grande scrittore Eduardo Galeano a curare l’introduzione nella quale riassume brevemente la rivolta dell’acqua scoppiata in Sudamerica: “Nell’anno 2000, la privatizzazione dell’acqua in Bolivia arrivò a offrire uno spettacolo degno del Guinnes dei primati. Nella regione boliviana di Cochabamba l’acqua fu privatizzata, compresa l’acqua della pioggia. Ci fu allora un’insurrezione popolare, e la sommossa cacciò dal paese l’impresa californiana che aveva avuto l’acqua in regalo, con pioggia e tutto, e aveva portato le tariffe alle stelle”. Quattro anni dopo, nel 2004 appunto, fu l’Uruguay ad affrontare lo stesso problema: “…si tenne un referendum sull’acqua: affare di pochi o diritto di tutti?” era la sostanza dell’interrogativo. “Noi cittadini che appoggiammo il referendum fummo, al principio, molto pochi, voci di scarsa eco. L’opinione pubblica uruguayana subì un bombardamento di ricatti, minacce e menzogne. I grandi mezzi di comunicazione dicevano e ripetevano che votando contro la privatizzazione dell’acqua, ci saremmo ritrovati in castigo e solitudine, e ci saremmo condannati a un futuro di pozzi neri e pozzanghere maleodoranti. Alla fine vincemmo, contro venti e maree, con più del settanta per cento dei voti. E così riuscimmo a far annullare le privatizzazioni dell’acqua che erano state elargite, e fu scritto nella Costituzione il principio che dice: 'L’acqua è una risorsa naturale essenziale per la vita. L’accesso all’acqua potabile e l’accesso ai servizi a essa collegati costituiscono diritti umani fondamentali'”. La stessa cosa avveniva poi nel 2009 in Bolivia quando nella nuova Costituzione approvata, considerata una vera e propria avanguardia nella difesa dei diritti sociali ed ambientali, l’acqua viene riconosciuta un diritto fondamentale e inalienabile. Un evento del genere da noi in Italia, o nel mondo occidentale nel suo complesso, sarebbe per il momento impensabile. Una Costituzione a difesa dei beni comuni? Chissà quando, forse tra qualche decennio. Ma in America Latina, no. Lo spiegano bene le due parti che compongono il libro, la prima dedicata appunto alla Bolivia, con saggi di Huascar Rodríguez García, Cristina Coletto, Luis Carlos Aguilar, Sergio Quispe, Rocío Bustamante e Vladimir Cossio; e la seconda invece alla Colombia, con scritti di Daris Maria Cristancho, Tatiana Roa Avendaño e Danilo Urrea. Conclude una piccola parte dedicata all’Italia con contributi di Alex Zanotelli, Francesca Caprini, Enzo Vitalesta e Alberto Lucarelli. “La visione andina dell’acqua tra passato e presente”, così si chiama il primo capitolo del volume, quello scritto da García e Coletto, “è la cultura ancestrale dei popoli che vivono nella cordigliera andina, è il profondo legame che lega l’uomo alla natura”. Sappiamo come il sapere andino sia una componente ancora forte della cultura continentale, che ha resistito agli eventi più terribili, dalla Conquista alle dittature, praticamente impossibile da estirpare. E con esso ha resistito anche “una 'cultura dell’acqua' che non può essere pensata al di fuori della cosmogonia andina”. “Gli abitanti delle Ande – ricordano i due studiosi, il primo ricercatore in Storia andina e la seconda ingegnere ambientale e socia fondatrice di Yaku – considerano l’acqua come un essere vivo che a sua volta genera vita, e la Natura come un 'tutto' di cui uomini e divinità fanno parte”. Insomma “il sangue o il seme che permette all’Universo intero di vivere”. È del tutto evidente che con queste premesse così forti la privatizzazione dell’”oro bianco”, come ora viene definito il prezioso liquido, non può che essere percepita in quei luoghi come una bestemmia, come un atto di violenza contro la Natura, appunto con la N maiuscola, e contro quelle popolazioni che cercano di vivere in armonia con essa. Nella seconda parte dedicata alla Colombia, Danilo Urrea, filosofo e militante dell’organizzazione ecologista colombiana Censat, racconta che cosa è successo a Bogotà e dintorni, dalle “privatizzazioni ai megaprogetti”. È utile ricordare a questo proposito che nel paese andino-caraibico ben 25 milioni di persone non hanno accesso all’acqua, la cui privatizzazione, già avviata nel 1994, non è stata cancellata malgrado la grande mobilitazione che dal 2007 al 2009 ha portato alla raccolta di oltre due milioni di firme finalizzate alla realizzazione di un referendum che definisse appunto l’acqua come un bene comune. Due anni fa il Parlamento, controllato dall’allora presidente Alvaro Uribe, ha archiviato la proposta ma gli attori della mobilitazione - comunità indigene, contadini, ambientalisti, forze sindacali e altri soggetti ancora – continuano la battaglia, forti di quello che sta succedendo nel resto del continente. Nel libro Urrea spiega i meccanismi che hanno portato alla mercificazione e alla privatizzazione dell’acqua. “La prima forma, quella per 'contaminazione', in Colombia, è collegata direttamente allo sfruttamento delle miniere e dei giacimenti di petrolio, alle monoculture di pino, eucalipto e dei cosiddetti agro combustibili, e più in generale, alle attività estrattive”. Questo tipo di imprese economiche porta inevitabilmente alla privatizzazione e all’inquinamento dell’acqua. Si chiama, questo meccanismo, “privatizzazione per appropriazione”, ed è “tipica – spiega il filosofo – nella realizzazione dei grandi progetti infrastrutturali, come nel caso dei fiumi 'strangolati' dalla costruzione di dighe per produrre energia”. Diventa a quel punto fatale la limitazione, se non addirittura l’impossibilità, di accedere a fonti idriche gestite da imprese o da singoli individui. La famigerata legge 142, quella che ha dato il via alla privatizzazione dell’acqua nel 1994, ha consentito anche l’avvio dell’imbottigliamento, attività denunciata da tempo dagli indigeni Yanakonas nella regione del Massiccio Colombiano. Urrea analizza anche il fenomeno del desplazamiento che in Colombia vuole indicare un fenomeno preciso: quello dei desplazados, cioè di coloro che, a causa del conflitto interno tra esercito e governo da un lato e guerriglia dall’altro, senza contare i narcos, sono costretti ad abbandonare le loro case. La Colombia detiene nel mondo questo triste primato dei rifugiati interni. Ma esiste anche un altro tipo di desplazamiento. Quello dei beni comuni, dove “non necessariamente le persone o le comunità che lo subiscono sono costrette ad abbandonare i loro territori”. Ma, come nel caso delle comunità di pescatori colpite dalla costruzione della diga di Urrà “le loro condizioni di vita sono drasticamente peggiorate, così come è stata compromessa la loro capacità di accesso ai beni comuni”. “Queste comunità – puntualizza Urrea – continuano a vivere nei loro territori, ma sono state ugualmente allontanate dai beni comuni e dai benefici che, in questo caso, il fiume Sinù dava loro per poter vivere dignitosamente di pesca e di agricoltura”. Insomma una storia di violenze ma anche di gente che non si rassegna. E che ci invita ad imitarli. Come fa Alex Zanotelli, ex missionario in Kenya: “Questo impegno sui beni comuni, partendo dall’acqua è fondamentale” dice l’ex direttore di Nigrizia che ammonisce: “Ma come abbiamo fatto ad arrivare a questo scempio, di privatizzare la Madre?” si chiede Zanotelli. L’esempio, ricorda il padre comboniano, viene dagli aymara delle Ande: “Loro quando vanno ad arare un campo, passano tutta la notte precedente a piangere per il male che faranno alla terra”. Un’etica troppo alta la loro per pretendere che venga assunta dall’occidente, ma almeno un tentativo dobbiamo farlo per guarire quella che il coraggioso missionario di Korogocho definisce una “follia collettiva”.

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