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lunedì 11 aprile 2016

DYONELIO MACHADO : UN AUTORE DA SCOPRIRE


Il 31 marzo del 1979, “O Estado de São Paulo” pubblicava un’intervista all’ottantaquattrenne autore de I topi con un curioso titolo: Machado de Assis, Graciliano Ramos, Guimarães Rosa, Clarice… e questo signore: Dyonelio Machado. Pochi anni prima della sua scomparsa, il nome di Dyonelio Machado veniva, quindi, finalmente accostato dal principale quotidiano brasiliano a quello di quattro scrittori ormai consacrati della letteratura nazionale. Si trattava di un riconoscimento indubbiamente tardivo perché, volendo prendere in considerazione i soli testi letterari, l’esordio di «questo signore», evidentemente ancora poco noto ai più, risaliva al lontano 1927, anno in cui aveva pubblicato Um pobre homem, la sua unica raccolta di racconti, dalla quale proprio Graciliano Ramos selezionerà Ele era como um papagaio per la sua antologia dei migliori racconti brasiliani. In seguito, Dyonelio Machado, prima di chiudersi in un ventennale silenzio editoriale (1946-1966), con I topi, nel 1935, aveva poi vinto il prestigioso premio “Machado de Assis” e il suo secondo romanzo, O Louco do Cati (1942), era stato molto apprezzato da scrittori come Mário de Andrade, Erico Verissimo e João Guimarães Rosa – con quest’ultimo che non aveva esitato a considerarlo uno dei migliori libri mai letti, dichiarando che, se solo «l’opera di Dyonelio fosse stata scritta in francese o in inglese o comunque da un romanziere straniero, certamente avrebbe vinto il premio Nobel». E allora, come mai questo scrittore, più volte premiato e apprezzato dai maggiori intellettuali brasiliani, alla fine degli anni Settanta, era solo un signore chiamato Dyonelio Machado?
Le ragioni sono diverse ma senza dubbio si tratta di un autore che ha pagato a caro prezzo l’incomprensione della critica, i tentennamenti del mondo editoriale e la persecuzione del regime di Getúlio Vargas. Una miscela deleteria a cui si potrebbe aggiungere anche l’impossibilità di vivere solo della propria scrittura – condizione che, per sua stessa ammissione, aveva portato questo pioniere della psicanalisi in Brasile a esercitare con continuità l’attività di psichiatra a scapito di quella di romanziere, anche a causa del «carattere terribilmente accentratore» della professione medica. Solo negli anni Settanta, quindi, comincerà la riscoperta di quello che oggi ci appare come un classico a lungo ingiustamente maltrattato, le cui opere, salvo pochissime eccezioni, non potevano raggiungere i lettori, vuoi perché condannate dall’autore a rimanere inedite, vuoi perché pubblicate senza la necessaria continuità.
Forse, come scrive Camilo Mattar Raabe, anche l’esigente «linguaggio letterario di Dyonelio Machado è stato uno dei principali motivi della negativa accoglienza della sua opera» e, del resto, quello che il lettore italiano ha finalmente tra le mani è senza dubbio il romanzo di uno scrittore che non si è mai dichiarato disponibile ad abdicare dal proprio rigore stilistico:

Io sono un ribelle. Io non appartengo al pubblico. Non sono in grado di scrivere un libro pensando a come sarà accolto, a quali reazioni susciterà. Non sono in grado di vendermi all’editore o al pubblico. Un po’ come il cane magro della favola, che non accetta la vita facile del cane grasso, perché dovrebbe farsi mettere il guinzaglio. Io francamente non sono un venduto. Vivere dei miei diritti d’autore sarebbe impossibile, finirei per fallire anche in quel poco di buono che ho fatto.



                                 (dalla postfazione di Giorgio de Marchis al volume I topi, Nova Delphi 2016)

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