Il 31 marzo del 1979, “O
Estado de São Paulo” pubblicava un’intervista all’ottantaquattrenne autore de I topi con un curioso titolo: Machado de Assis, Graciliano Ramos,
Guimarães Rosa, Clarice… e questo signore: Dyonelio Machado. Pochi anni prima della
sua scomparsa, il nome di Dyonelio Machado veniva, quindi, finalmente accostato
dal principale quotidiano brasiliano a quello di quattro scrittori ormai consacrati
della letteratura nazionale. Si trattava di un riconoscimento indubbiamente
tardivo perché, volendo prendere in considerazione i soli testi letterari,
l’esordio di «questo signore», evidentemente ancora poco noto ai più, risaliva
al lontano 1927, anno in cui aveva pubblicato Um pobre homem, la sua unica raccolta di racconti, dalla quale proprio
Graciliano Ramos selezionerà Ele era como
um papagaio per la sua antologia dei migliori racconti brasiliani. In seguito, Dyonelio Machado,
prima di chiudersi in un ventennale silenzio editoriale (1946-1966), con I topi, nel 1935, aveva poi vinto il
prestigioso premio “Machado de Assis” e il suo secondo romanzo, O Louco do Cati (1942), era stato molto
apprezzato da scrittori come Mário de Andrade, Erico Verissimo e João Guimarães
Rosa – con quest’ultimo che non aveva esitato a considerarlo uno dei migliori
libri mai letti, dichiarando che, se solo «l’opera di Dyonelio fosse stata
scritta in francese o in inglese o comunque da un romanziere straniero, certamente
avrebbe vinto il premio Nobel». E allora, come mai questo
scrittore, più volte premiato e apprezzato dai maggiori intellettuali
brasiliani, alla fine degli anni Settanta, era solo un signore chiamato
Dyonelio Machado?
Le ragioni sono diverse
ma senza dubbio si tratta di un autore che ha pagato a caro prezzo
l’incomprensione della critica, i tentennamenti del mondo editoriale e la
persecuzione del regime di Getúlio Vargas. Una miscela deleteria a
cui si potrebbe aggiungere anche l’impossibilità di vivere solo della propria
scrittura – condizione che, per sua stessa ammissione, aveva portato questo
pioniere della psicanalisi in Brasile a esercitare con continuità l’attività di
psichiatra a scapito di quella di romanziere, anche a causa del «carattere
terribilmente accentratore» della professione medica.
Solo negli anni Settanta, quindi, comincerà la riscoperta di quello che oggi ci
appare come un classico a lungo ingiustamente maltrattato, le cui opere, salvo
pochissime eccezioni, non potevano raggiungere i lettori, vuoi perché
condannate dall’autore a rimanere inedite, vuoi perché pubblicate senza la
necessaria continuità.
Forse, come scrive Camilo
Mattar Raabe, anche l’esigente «linguaggio letterario di Dyonelio Machado è
stato uno dei principali motivi della negativa accoglienza della sua opera» e, del resto, quello che il
lettore italiano ha finalmente tra le mani è senza dubbio il romanzo di uno
scrittore che non si è mai dichiarato disponibile ad abdicare dal proprio
rigore stilistico:
Io sono
un ribelle. Io non appartengo al pubblico. Non sono in grado di scrivere un
libro pensando a come sarà accolto, a quali reazioni susciterà. Non sono in
grado di vendermi all’editore o al pubblico. Un po’ come il cane magro della
favola, che non accetta la vita facile del cane grasso, perché dovrebbe farsi
mettere il guinzaglio. Io francamente non sono un venduto. Vivere dei miei
diritti d’autore sarebbe impossibile, finirei per fallire anche in quel poco di
buono che ho fatto.
(dalla postfazione di Giorgio de Marchis al volume I topi, Nova Delphi 2016)
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.