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sabato 4 dicembre 2010

GARCIA LORCA E LA TEORIA DEL DUENDE


Il misterioso principio creativo, ecco l’origine della passione per il mondo gitano. Un libro adesso propone le sue lezioni sul folklore musicale.

(Articolo di Diego Carmignani apparso sul periodico Left del 3 dicembre 2010)

I conoscitori e appassionati del nuevo flamenco dovrebbero avere una certa confidenza con il repertorio di monumenti come il chitarrista Paco De Lucia o il cantaor Camarón de la Isla. E dovrebbero sapere bene quanto spesso la poesia e la personalità di Federico Garcia Lorca siano state omaggiate nelle opere e nelle composizioni più celebri, dal classico Zorongo gitano al vertice artistico della scena flamenca. La leyenda del tiempo, fino ad arrivare a pubblicazioni più corali come Los gitanos cantano a Lorca. In sostanza, esiste una inesauribile corresponsione di amorosi sensi tra il poeta e il mondo gitano andaluso che si è tradotta, o nella messa in musica delle sue poesie o nella reinterpretazione di brani del canzoniere spagnolo tradizionale che Lorca aveva eseguito al pianoforte in vita, pubblicando anche un disco con una decina di canzoni cantate dalla virtuosa detta La Argentinita. Il Lorca paladino e alfiere della cultura flamenca, riconosciuto come tale dagli stessi massimi esponenti, non è da considerarsi un aspetto minore della sua eminente figura, anzi possiamo parlare di un asse portante della sua poetica e della sua ispirazione, presente in ogni momento della carriera e in ogni rappresentazione offerta di quella Spagna ardente che viveva all’epoca una delle pagine più buie. Il quadro completo del Lorca musicologo, ma anche del Lorca musicista, ci viene presentato nel volume edito da Nova Delphi, intitolato Sotto altre lune e altri venti, che raccoglie le cinque importanti conferenze dedicate dal poeta al folklore musicale: “Importanza storica e artistica del primitivo canto andaluso chiamato cante jondo”; “Architettura del cante jondo”; “Ninnananne spagnole”; “Come canta una città da novembre a novembre”; e “Gioco e teoria del duende”. Fra tutte, quest’ultima risulta essere la più importante poiché definisce quello che è considerato l’elemento centrale della sua visione: “ Il duende rappresenta il principio creativo della tradizione gitano andalusa – spiega la curatrice del volume, la professoressa Maria Cristina Assumma – e riguarda tutte le arti. È, letteralmente, un folletto, come il daimon della cultura greca. L’arte che affascina Lorca – quella in cui, da granadino, è sempre stato calato – non è virtuosa e accademica ma espressiva. E il duende è la condizione necessaria: è quest’urto, questa forza energetica da cui l’artista viene agito”. Una intuizione fondamentale, perché con le sue teorizzazioni, nonché la sua autentica passione e preparazione musicale, Lorca si assume, sin da giovanissimo, il ruolo del lume tutelare che darà legittimazione culturale al flamenco. È stato lui, insieme all’amico e maestro Manuel De Falla, a organizzare a Granada nel 1922, ad appena ventiquattro anni, il primo Concurso de cante jondo e a pubblicare poi il testo fondamentale della sua opera Poema del cante jondo. “Si trattò di un’operazione rivoluzionaria – continua la docente di Letteratura spagnola - . Due esponenti della cultura alta si impegnavano per la prima volta a dare valore culturale e artistico a quella che era considerata espressione di una classe popolare e marginale: i gitani vivono una condizione di alterità sociale ed etnica. Se non fosse stato per loro, il flamenco non avrebbe mai avuto alcun riconoscimento”. Anche se cessa di essere motivo portante, per Lorca lo spirito flamenco, inteso come continua sintesi tra tradizione e avanguardia, rimane: lo leggiamo nelle conferenze ma anche in opere teatrali come Bodas de sangre, che riporta un universo di valori decisamente gitano, e anche nella sua collocazione ideologica al tempo di Franco: il suo ritratto complessivo, in cui si può inserire l’interesse per il flamenco, ne fa un “partidario”, cioè che sta dalla parte degli esclusi. E quindi dalla parte sbagliata, per i falangisti che nel 1936 lo fucilarono e seppellirono in una fossa comune.

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