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giovedì 5 gennaio 2012

Su Le Monde diplomatique di gennaio recensione di Clotilde Barbarulli al romanzo "Le radici altrove" di Shubnum Khan
Un romanzo su tre generazioni di musulmane dalle radici indiane, in Sudafrica, dove la Storia, nei suoi contorni dolenti, appare come sfumata finché non irrompe nel quotidiano con la sua violenza. Per Khadeejah, la nonna, immersa nella cura dei familiari, «ogni giorno era uguale agli altri», a volte «ce l’aveva con la fatica che si annodava nella carne», ma resisteva per amore e dovere. Tutto il suo affetto prende corpo nei cibi da preparare, fino a divenirne «parte»: non ha dimenticato la sua provenienza e cucina con il curry, indossa abiti tradizionali, guarda telenovele indiane senza accorgersi della mentalità colonialista di fondo, mentre nella sua mente parole e pensieri in urdu, inglese e afrikaans si affollano «disputandosi lo spazio». La figlia Summaya, dopo una visita in India, turbata da tanta «sporcizia e polvere» e dal «vortice indistinto color fango» degli umani, si era sentita estranea, ma nelle paludi del Kerala, fra insetti, legno in putrefazione, palme e bambini nudi, avverte una sensazione di bellezza che la fa pensare: «Sono anche indiana. Come posso negarlo? Si poteva essere e non essere». Aveva attraversato «giorni oscuri» di depressione per l’abbandono del compagno ed era rimasta fragile, mentre la figlia Aneesa affrontava le difficoltà adolescenziali complicate dal silenzio sul padre. Ma la memoria incalza e affiorano «pezzetti» di storia, foto che parlano di segreti, mentre per Khadeejah «il freddo mondo esterno» scaverà «un buco nel nido caldo» della sua casa, rendendola «un’ombra»: tuttavia le più giovani riescono ad aprirsi al futuro, perché «ci sono molti treni diversi in una vita». Una storia di passioni, intrecciata ai ricordi di una patria lontana, fra nostalgia e straniamento, in un presente difficile, una riflessione sulle identità complesse dell’oggi, dove ormai i luoghi sono abitati da chi proviene dall’altrove, «portando con sé la propria cucina e le canzoni. Città di mondi abbandonati, il linguaggio una specie di addio» (Nella foto: Shubnum Khan).

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