In anteprima l'incipit del saggio introduttivo di Camilletti al volume.
"Trascorsi l’estate del 1816 nei dintorni di Ginevra. La stagione fu fredda e piovosa e alla sera ci si riuniva attorno al fuoco scoppiettante e talvolta ci divertivamo a leggere storie tedesche di fantasmi, capitateci in mano per caso [some German stories of ghosts, which happened to fall into our hands]. Questi racconti risvegliarono in noi un giocoso desiderio di imitazione. Due altri amici […] e io decidemmo di scrivere una storia ciascuno, basata su un qualche evento soprannaturale [a story, founded on some supernatural occurrence]."
"Nell’estate del 1816 visitammo la Svizzera e divenimmo vicini di casa di Lord Byron. […] Ma quell’estate si dimostrò piovosa e inclemente; spesso una pioggia incessante ci confinò in casa per giorni. Ci capitarono per le mani alcuni volumi di storie di fantasmi, tradotte in francese dal tedesco [Some volumes of ghost stories, translated from the German into French, fell into our hands]. […] Da allora non mi è più capitato di rileggere queste storie, ma tutti gli episodi sono così freschi e nitidi nella mia mente come se li avessi letti appena ieri. “Scriveremo ciascuno una storia di fantasmi [a ghost story]”, disse Lord Byron, e la sua proposta venne accettata."
Così, in due diverse occasioni, Percy
Bysshe e Mary Shelley ricostruiscono la genesi del Frankenstein, di fatto creando il vero e proprio mito della “notte
di Villa Diodati”: quel momento fondativo, cioè, all’intreccio di vita,
letteratura e riemergere di paure ctonie, che avrebbe cambiato per sempre la
letteratura di immaginazione. In entrambi i testi, a distanza di più di dieci anni, l’ispirazione che darà
vita al romanzo di Mary – e, indirettamente, a Il vampiro (The Vampyre)
di John Polidori – viene attribuita alla
congiuntura, casuale e irripetibile, di un’estate insolitamente piovosa, di un
libro scovato chissà dove e di una sorta di gioco letterario di società. In un
clima tetro, in una villa nel cuore delle Alpi svizzere, quelle storie così nordiche sembrano entrare in singolare
risonanza con l’atmosfera, invitando i presenti al piacere intimo del brivido letterario: sorta di
elemento catalizzante, il libro eccita l’immaginazione della compagnia,
spingendola a convertire l’inusuale inclemenza di quel giugno in narrazione. E però, al tempo stesso, la centralità di quei testi viene come disinnescata,
per mezzo di sottili strategie di minimizzazione. È curioso, ad esempio, che
sia Percy che Mary si premurino così tanto di sottolineare – e fino con
l’adoperare la stessa espressione – come quelle storie fossero loro “capitate
per le mani”, quasi per caso. Nel testo di Mary, addirittura, i “volumi di
storie di fantasmi” divengono il soggetto della frase, quasi che un apporto da
un altro mondo si fosse materializzato, in quell’estate inusualmente piovosa,
nelle mani dei convitati.
Il tono leggero, quasi giocoso degli
Shelley diviene ancora più interessante se lo confrontiamo con la versione – di
ben altro registro – che degli effetti scatenati da quelle storie dà un altro
degli ospiti di Villa Diodati, il medico e segretario di Byron John Polidori:
"Sembra che
una sera Lord B[yron], il signor P.B. Shelly [sic], le due signore e il
gentiluomo cui si alludeva prima, dopo aver compulsato un’opera tedesca [a German work] intitolata
Phantasmagoriana [sic], cominciarono a raccontare storie di fantasmi [relating ghost stories]; ma quando sua
signoria ebbe recitato l’inizio della Christabel, allora inedita, il tutto
s’impossessò a tal punto della mente del signor Shelly [the whole took so strong a hold of Mr. Shelly’s mind] che questi si levò d’un colpo e corse
via dalla stanza. Il medico e Lord Byron lo seguirono, e lo scoprirono riverso
contro un caminetto, col sudore freddo che gli scendeva a gocce sul viso. […]
quando indagarono le cause del suo allarmarsi, scoprirono che, poiché la sua
immaginazione selvaggia gli aveva raffigurato degli occhi sul seno di una delle
signore (cosa che si diceva di una dama delle sue parti), era stato obbligato a
lasciare la stanza per distruggere quell’immagine. Venne poi proposto, durante
la conversazione, che ognuno dei presenti scrivesse una storia centrata su una
qualche potenza soprannaturale [a tale
depending upon some supernatural agency],
cosa di cui si incaricarono Lord B., il medico e la signorina M.W. Godwin."
Nemmeno Polidori è completamente
affidabile: lo stesso episodio si ritrova nel suo diario alla data del 18
giugno 1816, ma l’“opera tedesca” non è menzionata affatto, e Polidori si
limita a parlare della Christabel di
Coleridge; la scommessa lanciata da Byron deve aver avuto luogo il giorno (o i
giorni) immediatamente avanti, se Polidori dichiara di aver cominciato la sua
storia di fantasmi “dopo il tè” (mentre l’episodio della Christabel, con gusto decisamente teatrale, viene situato a
mezzanotte). Con ogni probabilità, nel
ricostruire la genesi de Il vampiro, Polidori intende riecheggiare la
prefazione al Frankenstein del 1818, situando
entrambe le opere sullo sfondo di quella già leggendaria estate sul Lemano. E
tuttavia, quale sia stato il reale ed effettivo impatto di quelle storie sui convitati di Byron, tutte le fonti
danno conto di un’esperienza comune e condivisa: un intersecarsi di lettura e
scrittura, e di vita e arte, in cui il narrare storie – e specie quelle di
argomento soprannaturale – può prendere il controllo della mente, fino a
generare visioni. C’entrava la droga, probabilmente: ma
anche quel potere immaginifico della letteratura su cui gli scrittori del primo
Ottocento si soffermano così spesso, quella capacità, da parte delle storie prodigiose (la terminologia al riguardo,
come vedremo, è al tempo ancora fluida), di sospendere la mente razionale ed
eccitare le passioni, e che oggi – in una cultura dominata da un flusso
ininterrotto di informazioni e da una continua sollecitazione dei sensi – è
facile rubricare come iperbole romantica. Niente sarebbe tuttavia più falso.
Oggi, abituati a effetti più sottilmente perturbanti e sofisticati, i racconti
di fantasmi del primo Ottocento ci suonano eccessivi, farraginosi, teatrali; e,
adusi al cinema, non comprendiamo più come gli spettatori di allora potessero
provare autentici fremiti davanti alle illusioni proiettate su muri e tende nel
corso degli spettacoli noti come “fantasmagorie”. Eppure, come i primi
spettatori dei fratelli Lumière – incapaci di concepire un’immagine realistica
in movimento – poterono credere che un treno stesse per irrompere nella sala,
ci fu un’epoca in cui le immagini della lanterna magica potevano generare
un’illusione di verosimiglianza: e in cui le storie di spettri, recitate in
salotti illuminati da candele o dall’occasionale balenio del fulmine, erano
capaci di agire con forza oramai ignota sulle menti più suggestionabili. (...)
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